giovedì 26 novembre 2009

ARRIVEDERCI
26.11.2009
- Tutto esaurito, stamattina mercoledì 25, al Cinema Augusteo per la proiezione dedicata alle scuole del film "FORTAPASC" di Marco Risi sulla morte del giornalista Giancarlo Siani.
Presente in sala il Presidente dell'Associazione "Giancarlo Siani" Geppino Fiorenza.
Alle 17.00 a Palazzo S. Agostino la presentazione, curata della Fondazione "Valitutti" di Salerno presieduta da Renato Cangiano, del libro di Aldo Caponi, in arte Don Backy, "STORIA DI ALTRE STORIE" con Dario Salvatori.
In serata (ore 20.00), per la proiezione all'Augusteo "PRIGIONIERO DI UN SEGRETO" sarà presente il regista Carlo Fusco, il produttore Francesco Gagliardi ed il cast del film formato da Franco NERO, Tony SPERANDEO, Giulia Elettra GORIETTI, Ciro PETRONE, Rosario Ruotolo e Alfredo Ribassi.
Domani, giovedì 26, i lungometraggi in concorso saranno: MIRACOLO A PALERMO (ore 18.00) di Beppe CINO, produzione Sorpasso Film, con Tony SPERANDEO, Maria Grazia CUCINOTTA, Vincent SCHIAVELLI, Luigi Maria BURRUANO; THE COVER PAGE (ore 19.00, Caserma d'Avossa) di Ms. ROOPA IVER, produzione USA-INDIA con Ms. ROOPA IVER, Ms. Sanya IVER, Mr. Ananda THIRTHA; COMPLICI DEL SILENZIO (ore 20.00) di Stefano INCERTI, produzione Surf Film – Malkina – Duque Film con Alessio BONI, Giuseppe BATTISTON, Jorge MARRALE, Juan LEYRADO, Florencia RAGGI; TORNO A VIVERE DA SOLO (ore 22.00) di Jerry CALA', produzione Anteprima Eventi, con Jerry CALA', Enzo IACCHETTI, Tosca D'AQUINO, Eva HENGER.
Nel pomeriggio al Cinema Augusteo a partire dalle 15:30 i cortometraggi: IL CADAVERE DI VETRO, LA PREDA, TV, HEAVY METAL AXES di Margi VILLA ed ARRIVEDERCI di Valeriu JEREGHI, saranno presenti in sala il regista moldavo ed il produttore Francesco Gagliardi.
Proseguono anche le proiezioni presso i locali della Caserma militare "Gen. D'Avossa" in via P. del Pezzo (sede del 19° Rgt Guide) a partire dalle ore 16,00 con DON MILANI e a seguire LA VITA COSì COME VIENE.

Il film "Arrivederci" e il problema della maternità negata.

Per un “Arrivederci” meno amaro(Recensione al film di Valeriu Jereghi “Arrivederci”)
E’ un film coraggioso, Arrivederci , del regista moldavo Valeriu Jereghi.
Parla di problemi talmente strutturali nei paesi a forte tasso emigratorio da apparire irrisolvibili e quindi censurabili. E non solo censurabili, ma di fatto censurati da chi li vive in prima persona, quasi fosse una colpa o una vergogna l’essere nati poveri, in un paese povero ed essere stati costretti ad emigrare.E’ un film saturo di emozioni, melanconico e amaro, Arrivederci, prodotto dallo sguardo di un regista che fortemente si identifica con alcune delle vittime che l’ emigrazione falcidia, quelle che chi va via si lascia alle spalle.E’ un film lento e studiato, girato in bianco e nero, in cui convivono la raffigurazione iconica, la rarefazione mistica del cineasta russo Tarkovskij ed i toni molto più enfatici dei neo-realisti italiani. Quasi un invito straziante agli spettatori ad aggiungere di persona i colori, le sfumature. Ad entrare in risonanza con la materia dura, pietrosa, di cui è fatto il film. E, soprattutto, a colmare un’ assenza.Un invito che io, mamma e migrante privilegiata, non posso non cogliere…
Il film è tutto costruito su un personaggio di cui nulla si sa e nulla si vede, una madre che ha lasciato soli in Moldavia per migrare in Italia due bambini, un fratello maggiore e una sorellina, che insieme raggiungono forse a mala pena i 16 anni. In una società povera e rurale i due bambini si arrabattano per vivere, soprattutto grazie alla caparbia e fiera capacità di sopravvivenza del più grande dei due. Ma non è tanto la durezza delle condizioni di vita, il prematuro incontro con le necessità spietate della povertà e dell’ assenza di figure di riferimento a costituire il nucleo del film. Piuttosto, è la dialettica tra l’ assenza materiale della madre e la presenza di lei nella memoria, nei gesti e nel desiderio struggente del figlio maggiore a tessere la trama del film, che poi è solo un’ attesa senza fine.Sono quattro le sequenze del film che più mi hanno colpito e che desidero commentare.Il film si apre con il risveglio dei due bambini; capiamo dalla determinazione che il maschietto mette nel pettinare la sorellina, dall’ attenzione nel consolarla, che a lui spetta il ruolo materno della cura. Con un significato non recondito : la madre ha curato amorevolmente e a lungo quel figlio se è riuscita a tramandare il suo ruolo, a instillare in lui non solo la devozione che il bambino le dedica ma anche i gesti quotidiani del contatto quotidiano con il corpo dell’altro, che si fa arrendevole, corpo di figlio/figlia.In un significato forse più lontano, ma su cui vale la pena di interrogarsi ugualmente, il ruolo materno assunto da un piccolo rappresentante del genere maschile appare come la rottura fortuita di una catena di eventi che portano le donne piuttosto che gli uomini ad eccellere nei ruoli della cura. L’ emigrazione della madre, probabilmente in Italia per essere badante, porta un figlio ad essere badante dell’ altra figlia. Come a dire che la povertà e l’ emigrazione possono stravolgere i confini di quello che chiamiamo famiglia, di quello che chiamiamo ruolo genitoriale, di quello che consideriamo ruolo maschile o femminile. Un salto nel buio nell’arco di una generazione fa precipitare su un cucciolo d’ uomo un destino che tradizioni valoriali sedimentate lentamente nei secoli hanno invece riservato alle donne.
Nella seconda sequenza, il bambino ascolta, cuffie agli orecchi mentre sale sul monte, la canzone “O sole mio” che lo connette all’ Italia, un paese misterioso, dove la madre vive (o non vive più). Questa e le altre canzoni napoletane della colonna sonora di questa parte del film, sono anche le canzoni che gli emigranti italiani in tutto il mondo si portano dietro per ricordare la patria. Come a dire che l’emigrazione ha un linguaggio unico, scandito tra le note alte del desiderio e quelle basse della nostalgia. E l’ emigrazione ha i suoi tempi, un presente schiacciato tra passato e futuro, entrambi coniugati con il modo condizionale del “se…”Nella terza sequenza, l’ arrivo al primo giorno di scuola in ritardo del bambino ci porta all’ interno della trasmissione valoriale che è di nuovo affidata ad un personaggio femminile. Una giovane maestra declama con vigore un poema sulla madre-patria. L’ assenza della madre si fa duplice e raddoppiato il dolore del bimbo. Se l’ apprendimento di una lingua è sempre l’ apprendimento di una lingua materna, chi non ha madre con cui condividerla, cosa apprenderà ?
C’ è infine l’ ultima, amarissima sequenza su cui si chiude il film, con la tragica fine di un contadino, un personaggio solo apparentemente secondario, forse un alter-ego del regista, che, parlando con un vicino, niente aveva voluto ammettere del suo dolore nello scoprire che la moglie emigrata in Italia conviveva ormai con un ruba-cuori italiano dipinto con toni foschi. Nell’ orgoglio, nella chiusura su se stessi che non vuole ammettere il disagio, si consumano molte delle tragedie dell’ emigrazione. Non si capisce l’ emigrazione se non si capisce l’orgoglio di chi emigra. Si parte per non voler essere sconfitti. Non si torna per paura di ammettere una sconfitta agli occhi dei compaesani. E chi resta, soprattutto se non è più un bambino, vive come già una sconfitta il dovere aggrapparsi alla speranza di un improbabile ritorno di chi ama.Arrivederci è più di un film : è un incontro.
Quello verificatosi, come ci ha raccontato il regista nella proiezione organizzata da Assomoldave il 15 marzo a Roma, tra lui e un turista italiano in Moldavia che l’ha convinto a girare il film dopo aver incontrato i due bambini della storia ed aver cercato invano di aiutarli. Questo incontro tra lo sguardo del nativo e lo sguardo “altro” che può permettersi di vedere ciò che a noi fa troppo male notare, a costituire a mio avviso l’ eredità più preziosa del film. Perché due occhi più due non sono solo quattro occhi, ma una nuova idea per le mani e gambe che servono a far camminare i progetti che bisogna costruire per aiutare i poveri del mondo.
Arrivederci è più di un film : è un progetto. Anzi non uno, ma dieci, cento, mille progetti di “empowerment” per le popolazioni migranti, perché è solo l’ aiuto all’ auto-aiuto che si rivela aiuto duraturo. Con questa finalità in mente si può inoltre stabilire una relazione paritaria tra chi sente di avere avuto di più e chi sente di avere avuto di meno, per poi arrivare a una nuova capacità di sviluppare un proprio progetto di vita e di sentirsi più padrone del proprio destino. Raccolgo l’ invito implicito del film e metto le mie energie al servizio di un progetto: costruire una rete di gruppi di contatto tra donne originarie di Roma e donne migranti per elaborare insieme la sofferenza dell’ essere lontane dai propri cari e, al tempo stesso, cercare soluzioni concrete per il mantenimento e il miglioramento della relazione madre-figli.Condivido questo progetto con la rete di donne che aderiscono al COORDINAMENTO DONNE CONTRO IL RAZZISMO - donnecontroilrazzismo@yahoo.it e spero di poter facilitare uno di questi gruppi insieme a Tatiana Nogailic di Assomoldave (assomoldave@gmail.com).
Maria Emanuela GalantiRoma, 30 marzo 2009 www.emanuelagalanti.eu